lunedì 30 gennaio 2017

Trump, dalla grande inclusione alla grande espulsione

Sorprendentemente, a giudicare dai titoli dei giornali e da come viene percepito il fenomeno migratorio, in un mondo di più di sette miliardi di persone solo il 3% sono migranti internazionali, che vivono al di fuori dei paesi in cui sono nati. 
Eppure, il mondo è sempre in movimento, creando in questo processo, molte trasformazioni. 
Viviamo sempre più in un mondo in cui le ricchezze sono in mano a pochi mentre è sempre più crescente la quota di poveri e quindi, inevitabilmente, le pressioni migratorie continueranno ad aumentare come risultato di disuguaglianze globali e di gravi conflitti, e in cui i paesi più sviluppati si troveranno a dover gestire, con sempre più difficoltà, da una parte l'espansione demografica e dall'altra la necessità di forza lavoro.
E' indubbio che l'immigrazione è una forza di trasformazione, che produce cambiamenti sociali profondi e imprevisti in entrambe le società, sia di partenza che di arrivo, nei rapporti infragruppo all'interno delle società di accoglienza, e tra gli stessi immigrati e i loro discendenti. 


Iimmigrants on the ferry in 1905

L'immigrazione influenza e viene influenzata quindi, giocoforza,  sia dalle politiche statali che cercano di controllarne i flussi, che dalle diverse forme di reazione da parte dei residenti e dei politici di turno, che possono visualizzare i nuovi arrivati anche come una minaccia culturale o economica. 
La paura dello straniero, la xenofobia che porta a una "società del disprezzo", è variata storicamente in tandem con tutte le forme di migrazione internazionale, aggravata oggi maggiormente da una crisi economica globale, dagli attacchi terroristici, dalla guerra, e quindi da sempre maggiori flussi di rifugiati.
Sicuramente una caratteristica della società americana, tanto da auto-definirsi "nazione di emigranti", è stata la capacità  di assorbire, come una spugna gigante, decine di milioni di nuovi arrivati da tutte le classi, culture e paesi. 
Questo risultato fenomenale, tuttavia, ha storicamente convissuto con due lati contrapposti nel processo di costruzione della nazione in quanto gran parte della storia americana può essere vista come una dialettica di processi di inclusione ed esclusione, e in casi estremi di espulsioni e rimozioni forzate.
Per capire la vastità dei processi di inclusione basterebbe raccontarne la storia attraverso due città, New York e Los Angeles.



Italian immigrants on the Ellis Island–Manhattan ferry in 1905

New York, può sicuramente essere considerata la città americana simbolo per eccellenza dell'immigrazione.  Dal 1820 (quando il numero degli arrivi ha cominciato ad essere stimato) al 1892 (l'anno in cui Ellis Island ha aperto all'ingresso del porto di New York, vicino alla Statua della Libertà, installata sul suo piedistallo nel 1886), gli immigrati arrivati prima alle banchine sulla punta di Manhattan, e poi attraverso la vicina Castle Garden (primo impianto di accoglienza degli immigrati) furono più 10 milioni.
Quindi più di 100 milioni di americani possono rintracciare i loro antenati (prevalentemente europei) in questo periodo. Lo stesso Donald Trump trova le sue origini di migrante nel nonno Friederich (Fred) Trump, che, nato il 14 marzo 1869 a Kallstadt in Germania, migrò nel 1885 negli Stati Uniti da Amburgo a bordo della nave "Eider" e diventò un cittadino degli Stati Uniti nel 1892 a Seattle, Washington.


Fred Trump (padre di Donald) nel 1915 da bambino (primo a sinistra), con i genitori, nonché nonni di Donald,
 Friedrich Trump ed Elizabeth Christ, la sorella Elizabeth e il fratello John G. 

Poi dal 1892 fino alla sua chiusura nel 1954, Ellis Island è diventata la porta d'ingresso per altri 12 milioni di immigrati ed è quindi ricordata come la più trafficata stazione di controllo degli immigrati del paese nel decennio tra il 1905 e il 1914.
Dopo il 1924 Ellis Island divenne invece principalmente un centro di detenzione e di deportazione. 
Altri 100 milioni di americani discendono quindi anche da questi immigrati che, arrivati a Ellis Island, si sono poi dispersi in tutto il paese. 
Così, incredibilmente, quasi due terzi della popolazione degli Stati Uniti, circa 320 milioni di oggi, possono rintracciare le loro origini ai nuovi arrivati che sono entrati attraverso New York City nel secolo tra i 1820 e 1920.

Ellis Island  porta d'ingresso a New York

Sulla costa occidentale invece, la storia dell'immigrazione si è  sviluppata in un modo un po' diverso e, in particolare a Los Angeles, che è considerata come la metropoli premier per immigrati nel mondo di oggi. 
E 'difficile valutare e descrivere la trasformazione demografica  che la California ha subito nel corso dell'ultimo mezzo secolo. 
Ancora nel 1960 Los Angeles era la "più bianca" e la più grande città protestante nel paese, tuttavia entro la fine del 1980 un terzo di tutti gli immigrati verso gli Stati Uniti si erano stabiliti in California, e oggi, dei 10 milioni di persone a Los Angeles County (contea più grande della nazione), il 72% sono le minoranze etniche (cioè 7,2 milioni di persone, un numero significativamente più grande delle popolazioni della maggior parte degli stati degli USA). 
In effetti, il sud della California ospita la più grande concentrazione di messicani, salvadoregni, guatemaltechi, filippini, coreani, giapponesi, taiwanesi, vietnamita, cambogiani, iraniani, nonché di altre nazionalità che hanno trovato qui ospitalità al di fuori dei rispettivi paesi di origine e di contingenti considerevolmente alti, come ad esempio armeni, cinesi, honduregni, indiani, laotiani, russi e israeliani ebrei, nonché diverse nazionalità arabe. 
La maggior parte delle più grandi nazionalità di immigrati che si sono stabiliti negli Stati Uniti dal 1960 hanno quindi scelto  il loro insediamento primario a Greater Los Angeles.
Oggi, gli immigrati rappresentano ancora oltre un quarto della popolazione di 38 milioni di persone in California, e più di un quarto di tutti gli immigrati della nazione risiedono proprio in California. 
Questa quota considerevole di immigrazione ha beneficiato di varie leggi o delibere approvate in concomitanza di specifici momenti storici: della Immigration Act 1965 (che ha abrogato la razzista Quota Act 1924), il reinsediamento di centinaia di migliaia di profughi della guerra fredda da Cuba e dal Vietnam, Laos e Cambogia dopo la fine della guerra in Indocina nel 1975, e la disposizioni di amnistia del 1986, Immigration Reform and Control Act (IRCA), agli immigrati senza documenti.
Il censimento della popolazione nel 1970 contava la percentuale più bassa di persone di origine straniera nella storia degli Stati Uniti, il 4,7%. 
Oggi, che la quota è di oltre il 13% a livello nazionale, si avvicina così, ma senza superarlo, al massimo storico del 14,8% raggiunto nel decennio 1890 e 1900.


Los Angeles anni '60

Una caratteristica iconica quindi degli Stati Uniti è stata la sua notevole capacità di assorbire i nuovi arrivati da tutte le classi, culture e paesi.
La diversità etnica e nazionale dei migranti contemporanei negli Stati Uniti impallidisce in confronto alla diversità delle loro origini come classe sociale. 
Ne è un esempio eclatante il fatto che sia i più istruiti che i meno istruiti negli Stati Uniti oggi sono gli immigrati, il che porta a una riflessione sulle conseguenze sul piano lavorativo e di mercato che vede contrapposti tra gli stessi gruppi di migrazione professionisti ad alto livello e manodopera a basso costo, il che porta inevitabilmente a una clessidra che vede da una parte migrazione di "cervelli" e dall'altra lavoratori da sfruttare, spesso anche senza documenti.  
Questi ultimi hanno fatto emergere, in particolare in questi anni del 21esimo secolo, l'elemento più controverso nella politica dell'immigrazione. 
Alcuni milioni di loro sono entrati negli USA da bambini e un segmento di questi, i cosiddetti "Dreamers", sono stati i beneficiari delle politiche di Obama  volte a integrarli, fornendo loro status temporaneo legale, l'accesso al mercato del lavoro legale, patenti di guida e la sicurezza di non essere deportati.



Donald Trump insieme alla madre Mary Anne Macleod (scozzese) e al padre Fred Trump

Purtroppo quello che si pensava impossibile si è avverato e gli Stati Uniti oggi, con l'ascesa al potere di Trump assistono e assisteranno a stravolgimenti e picconamenti delle poliche precedenti, quella di Obama ma forse non solo. Dalla sanità pubblica alla costruzione di un muro lungo il suo confine meridionale, alla fine della cittadinanza per diritto di nascita (un marchio di garanzia degli Stati Uniti nonché diritto costituzionale a partire dalla fine della guerra civile), all'istituzione di un registro musulmano, al finanziamento federale di "città santuario", e, come già vediamo in questi giorni, alla riduzione del reinsediamento dei rifugiati e alla negazione di accoglienza per intere nazionalità (vedi i siriani), a vasti aumenti di divieti di accesso negli USA, detenzione e deportazione di immigrati.
E lui ha già stravolto tutto, “nessun presidente della storia moderna degli Stati Uniti ha cominciato il suo mandato con una tale quantità di iniziative sui temi più disparati e in così breve tempo” (fa sapere l’Agi), annullando anche i più consolidati diritti di donne, lavoratori, nativi, immigrati......ricorrendo persino a ricatti:
- nel giorno del suo insediamento, 20 gennaio, ha firmato un ordine per cominciare a smantellare la riforma sanitaria del suo redecessore. - tre giorni dopo, il 23 gennaio, ha ordinato di ritirare gli Usa dal Tpp, l’accordo di associazione transpacifico, che già in campagna elettorale aveva definito “un disastro potenziale” per gli Usa. 
- ancora il 23 gennaio il tycoon ha firmato un ordine per proibire l’utilizzo di fondi del governo per sovvenzionare le Ong che praticano o danno consigli sull’aborto. 
- sempre lunedì 23 gennaio ha firmato anche un terzo ordine esecutivo per bloccare nuove assunzioni nel governo federale, eccetto che per le Forze armate. 
- il 24 gennaio ha dato il via libera a due grandi (e controversi) progetti di oleodotto che Obama aveva congelato a causa dell’impatto sull’ambiente.
- il 25 gennaio ha firmato l’ordine esecutivo per avviare la costruzione nel giro di “mesi” del muro alla frontiera con il Messico. 
- ancora il 25 gennaio ha ordinato di creare altri centri di detenzione per clandestini, aumentare il numero degli agenti di controllo alle frontiere e interrompere i fondi federali a città come Chicago, New York e Los Angeles, che proteggono dall’espulsione gli immigrati irregolari. 
- il 27 gennaio, il tycoon firma al Pentagono gli ordini esecutivi per la sospensione dell’accoglienza ai rifugiati per 120 giorni (tempo necessario per poter esaminare i meccanismi di accettazione e assicurarsi che gli estremisti non mettano piede sul territorio statunitense), bloccando a tempo indefinito l’ingresso di rifugiati siriani e sospendendo per 90 giorni la concessione di visti a cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana con una storia di terrorismo: Libia, Sudan, Somalia, Siria, Iraq, Yemen e Iran. 
Dimenticandosi, ma forse no dati gli interessi economici in gioco, di paesi dichiaratamente coinvolti in attentati terroristici come Arabia Saudita, Pakistan o Afganistan.
Questi presupposti indicano che sicuramente con Trump è iniziata una nuova era, migliore o peggiore, lo si vedrà in futuro sempre che il Congresso non lasci a Trump carta bianca. In questo caso temo che da presidente si trasformerebbe in tiranno assoluto! 


29 giugno 2017 - Corteo di protesta contro Trump e il suo bando agli immigrati
partito da Battery Park verso Ground Zero e Midtown

Ci aspetta un futuro comunque incerto e potenzialmente uno dei più tragici e vergognosi della storia della "Immigrant America".
Mi auguro non si trasformi nel virulento anti-cattolicesimo "Know Nothing" della metà del 19esimo, o nei successivi movimenti nativisti contro meridionali e orientali europei, che culminò nel restrizionista e razzista "National Origins Quota Act" del 1924.
Prese di posizione che trascinano con se odio e isteria collettiva come quella anti-tedesca della prima guerra mondiale e che ricordano tragici momenti come l'internamento di giapponesi americani durante la seconda guerra mondiale, o il "rimpatrio" (rimozioni forzate) nel corso del 1930 di un milione di messicani americani (oltre la metà dei quali erano cittadini degli stati Uniti).
Al "Dream Act", il sogno di Obama, si era già sostituita la proliferazione di centinaia di leggi e ordinanze federali per cercare di controllare e arginare l'immigrazione a livello locale, nonostante mandati costituzionali in senso contrario statali e locali. 
Ironia della sorte, il presidente Obama, il cui sogno era quello della riforma dell'immigrazione, ha lasciato l'incarico dopo aver forse presieduto, suo malgrado, il maggior numero di espulsioni nella storia americana.



Foto
LEWIS HINE LA GRANGER COLLECTION / CORDON PRESS
dal sito elpais

sabato 21 gennaio 2017

La "Madunina" che domina Milan

"O mia bela Madunina che te brillet de lontan - tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan"
(autore Giovanni D’Anzi)

Noi milanesi forse siamo più stimolati ad apprezzare le bellezze della nostra città quando le vogliamo far conoscere ai nostri amici.
In queste occasioni ci ricordiamo di luoghi che raramente rivisitiamo e ci piace condividere curiosità legate a fatti e luoghi di questa stupenda città.
Una di queste curiosità mi è stata ricordata da una guardia giurata incontrata per combinazione vicino a piazza Gae Aulenti, dove avevo condotto un'amica di Torino ad ammirare la skyline milanese.
Tra le tante curiosità raccontateci, vorrei qui parlare in particolare di una legata alla famosa nostra "Madunina" che sovrasta i marmi di Candoglia del Duomo.




L'inizio di questa "curiosità" risale al 1774 quando all'altezza di 108.5 metri, sulla guglia più alta del Duomo, viene posta la statua della Madonna che subito per i Milanesi diventa "La Madunina". 
Anche se il diminutivo non è propriamente corretto, data la sua altezza di 4 metri e 16 cm ed il suo peso (è completamente rivestita d'oro), da allora veglia sulla città e sui milanesi dal punto che avrebbe dovuto essere il più alto.  
Era un'altezza che, in quegli anni, sembrava davvero insuperabile da altri edifici e che anche in seguito non si volle superare, nemmeno negli anni venti, agli inizi  della dittatura fascista. 
In quel periodo infatti, il comune di Milano promulgò una disposizione, voluta dallo stesso Mussolini, che prevedeva che non si potesse costruire alcun edificio che superasse in altezza la Madonnina. 
Nel 1933 Milano, che voleva ottenere "l'esposizione internazionale triennale delle arti decorative e industriali moderne", commissionò ad un gruppo di architetti, tra cui Giò Ponti, la costruzione di una torre che avesse una terrazza panoramica. La Torre Littoria, rinominata poi Torre Branca, fu così costruita nel parco Sempione ma, rispettando la norma, si fermò a 108 metri d'altezza. 
Pochi anni dopo, poco prima della guerra, lo stesso Mussolini sembrò però ripensarci e il Corriere della Sera del 20 ottobre 1938 titolò su tre colonne: "II Duomo avrà il campanile più alto del mondo. L'ordine del Duce: le campane a posto nel 1942".
Il campanile avrebbe dovuto essere costruito sul lato destro del Duomo, nello spazio antistante il palazzo reale, e avrebbe dovuto essere alto ben 164 metri. 
Un progetto che sicuramente non avrebbe abbellito la piazza e che per fortuna, con l'arrivo della guerra, fu abbandonato.


Duomo, Progetto Torre Campanaria Architetto Ottavio Cabiati, 1930-35

Gli anni del dopo guerra furono anni di grande fermento e ricostruzione e nel 1958 fu inaugurata a Milano la Torre Velasca, una gigantesca costruzione in cemento con la parte superiore aggettante che gli conferisce la caratteristica forma a fungo. 
Anche se il fascismo ormai era caduto da tempo e la disposizione del comune probabilmente non aveva più alcun valore, tra il comune e la curia c'era un tacito accordo per cui, nel progetto risalente al 1951, il limite dei 108.5 metri non venne nemmeno questa volta superato. Ed infatti anche la Torre Velasca si fermò a 106 metri d'altezza. 
Il primo trasloco, si fa per dire, che dovette affrontare la Madonnina risale però a qualche anno prima, in cima alla torre Breda, in piazza della Repubblica a poca distanza dalla stazione Milano Centrale.
In questi primi anni '50 il capoluogo lombardo iniziava davvero a cambiare volto con la sua rincorsa verso l’alto, che incarnava lo spirito degli anni del boom in cui tutto era finalmente possibile. 
Così, purché sulla sommità venisse posta una riproduzione della Madonnina, il Comune acconsentì alla costruzione di palazzi che superassero i fatidici 108,5 metri.

Alta 117 metri, la torre Breda di piazza Repubblica fu quindi il primo grattacielo di Milano a infrangere quel limite storico. 
Disegnata dall’architetto Luigi Mattioni, quando venne conclusa, nel 1954, con i suoi 31 piani divenne anche il grattacielo più alto d’Italia. 
I bombardamenti su Milano, che avevano causato moltissimi danni, avevano anche distrutto gli stabilimenti e gli uffici della Pirelli che sorgevano nella zona della Cascina Brusada, accanto alla stazione centrale. 
Fu così che, più o meno negli stessi anni, Piero e Alberto Pirelli decisero di ricostruire la zona della Cascina Brusada e commissionarono ad un gruppo di architetti, tra cui ancora Giò Ponti, la costruzione del grattacielo Pirelli. 


La Modonnina in cima al Pirellone

Quando fu inaugurato, nel 1960, risultò essere alto 127,10 metri, ben 10 metri in più rispetto alla Torre Breda e quasi 20 dall'altezza della Madonnina.
Per inciso è proprio tra i miei ricordi infantili dato che mio padre, funzionario e poi direttore alla Pirelli, vi fu trasferito ed io, piccina, durante una visita nel suo ufficio, scappai a da sola salii in ascensore fino al 31esimo piano! 
L'ultimo piano infatti, il 32esimo del grattacielo, è raggiungibile solo tramite scale dal 31esimo piano (l'ultimo a cui arrivano gli ascensori), e, aperto al pubblico in alcune giornate speciali, funge da belvedere con ampia vista panoramica sulla città, ospitando anche mostre temporanee come spazio multifunzionale.
Comunque, riguardo all'altezza superata e per ottenere giustizia, il cardinale Montini propose una soluzione direi tipicamente italiana. 
Fu infatti realizzata una copia di 85 cm della Madonnina da mettere sul tetto del nuovo grattacielo in modo che potesse vegliare sui milanesi sempre dal punto più alto della città. 
Alla cerimonia con la benedizione del cardinal Montini, futuro papa Paolo VI, a cui partecipò allora anche il mio papà, non fu dato alcun risalto e questa storia rimase praticamente sconosciuta fin quando Gian Mario Merli, un medico appassionato di storia di Milano, non la rese pubblica.


La Modonnina in cima a Palazzo Lombardia

Nell'autunno del 2010 fu inaugurato Palazzo Lombardia, la nuova sede della Regione, che è alto 161 metri e, per mantenere il suo primato, la Madonnina ha traslocato e, come ci ha raccontato la guardia giurata, si è trasferita in cima al nuovo edificio di Pei-Cobb, la nuova sede della Regione, alto 39 piani
Il 31 gennaio 2011 è stata infatti benedetta dal cardinale Dionigi Tettamanzi, una copia della Madonnina.
Tutte le domeniche, dalle ore 10 alle 18 con ingresso gratuito, la Regione apre al pubblico il trentanovesimo piano del palazzo da cui si gode una bellissima vista di Milano e da cui, muniti di binocolo o teleobiettivo, è possibile vedere la cima del grattacielo Pirelli con la sua Madonnina.


La Madonnina sulla sommità della torre Isozaki

Ormai Milano sta sviluppandosi sempre più in "verticale" e anche quell'altezza è stata di gran lunga superata.
Attualmente la Torre Isozaki o Torre Allianz, soprannominata "Il Diritto", è l'edificio più alto d'Italia, superando l'Unicredit Tower con i suoi 249 metri di altezza, ed è il sesto in tutta l'Unione europea. 
Il 22 novembre 2015 e come vuole la tradizione meneghina, in occasione della recente inaugurazione della torre Isozaki in zona Citylife, una terza copia della Madunina, alta un metro e mezzo e pesante 145 chili, è stata issata anche qui sulla sommità della torre dopo essere stata benedetta da monsignor Carlo Faccendini, vicario episcopale dell’Arcidiocesi di Milano (qui il video).
E se il futuro di Milano è nei grattacieli, la Madonnina dovrà rassegnarsi a cambiare spesso casa. 



martedì 10 gennaio 2017

Ennio De Giorgi, video/intervista a un grande matematico del '900

Leggendo il tema del Carnevale della Matematica di gennaio 2017, ospitato da Maurizio Codogno, "dimostrazioni non standard", mi è tornato alla mente un dattiloscritto "L'analisi matematica standard e non standard rivista in una nuova prospettiva scientifica e culturale" che mi era capitato di leggere e che trovai davvero illuminante.
Si tratta di un dattiloscritto molto tecnico e per addetti ai lavori (qui per scaricare file .pdf) in cui  si sottolinea il ruolo degli assiomi fondamentali, dei concetti base della matematica di cui però non voglio qui parlare, anche perché non sarei in grado di farne un sunto coerente e scientificamente appropriato alla genialità di chi l'aveva scritto, il grande matematico Ennio De Giorgi.

"Si tratta di un primo spunto che potrà essere sviluppato in diverse direzioni, anche in vista di uno degli obbiettivi: rendere la matematica sempre meno “grigia”, sempre più “colorata”...."

Propongo invece questa video/intervista dell'Unione Matematica Italiana del luglio 1996, fatta da Michele Emmer pochi mesi prima della morte di De Giorgi (8 febbraio 1928 - 25 ottobre 1996) e riproposta dal Centro di Ricerca Matematica Ennio De Giorgi lo scorso settembre 2016.
Ascoltarlo sarà sicuramente un piacere anche perché, come simpaticamente diceva De Giorgi, "scripta volant, verba manent"!¹
Vi lascio quindi all'ascolto di questa intervista, forse meglio dire "lectio magistralis", del grande matematico del Novecento, di cui trovate trascritto anche il testo.

Video/intervista a Ennio De Giorgi (luglio 1996)

L'intervista si snoda su vari punti che caratterizzano altrettanti argomenti, ma soprattutto si apre e si chiude con sagge osservazioni sull'importanza dei Diritti Umani:
Matematica e realtà
Matematica e ambiente
Matematica e creatività
Matematica e computer
Matematica e cultura
Matematica e linguaggio
Matematica e intuizione
Matematica e insegnamento

Testo dell'Intervista

Per quanto mi riguarda, da bambino avevo un certo gusto a risolvere piccoli problemi ma avevo anche una certa passione nel fare dei piccoli esperimenti che si potevano dire, se non di fisica, di pre-fisica. Mi sono poi iscritto al primo anno di ingegneria all’epoca in cui ancora c’erano i corsi comuni di matematici, ingegneri, fisici. E nel corso del primo anno mi sono accorto che la mia vocazione naturale era soprattutto verso la matematica. Io penso che sia stato un grande peccato la separazione fin dal primo anno di matematici, fisici, ingegneri. Da un lato fa perdere un certo numero di persone che potenzialmente potrebbero essere buoni matematici, ma che inizialmente hanno ancora una vocazione non differenziata tra matematica, ingegneria e fisica, e in secondo anche chi ha una netta predisposizione per la matematica lo porta a perdere il contatto vivo con le altre scienze, porta alla fine a un isolamento come mentalità del matematico rispetto a tutte le
altre discipline con cui pure invece la matematica deve mantenere un costante rapporto.


De Giorgi in aula alla Normale di Pisa

Matematica e realtà

Credo che sia un mistero il motivo dell’utilità della matematica nei confronti della realtà non solo fisica, ma anche biologica, economica, eccetera. Io penso che l’indicazione per me più suggestiva viene dal Libro dei Proverbi, uno dei più antichi libri della Bibbia, che a un certo punto dice che "la matematica, cioè che la sapienza, che è più grande della matematica, era con Dio quando Dio creava il mondo e la sapienza ama farsi trovare dagli uomini che la cercano e la amano". Penso che la matematica sia una delle manifestazioni più significative dell’amore della sapienza e come tale la matematica è caratterizzata da un lato da una grande libertà e dall’altro da una intuizione che il mondo è grandissimo, è fatto di cose visibili e invisibili, e la matematica ha forse una capacità unica tra tutte le scienze di passare dalla osservazione delle cose visibili all’immaginazione delle cose invisibili. Questo forse è il segreto della forza della matematica. Un altro aspetto, che è un altro dei segreti della forza della matematica, è la libertà e la convivialità; il matematico ha una libertà che forse altri scienziati hanno meno o non hanno, pensare alle cose che lo interessano di più, scegliere gli argomenti che ritiene più belli e il modo che ritiene più bello di affrontarli, perfino fissare gli assiomi da cui vuole partire nelle sue successive elaborazioni; dall’altro il matematico ama il dialogo con gli altri; risolvere un problema matematico senza avere un amico a cui esporre la soluzione e con cui discutere anche la natura del problema e la sua importanza, significa di fatto perdere buona parte del gusto della matematica. Quindi credo che una delle caratteristiche della forza della matematica sia proprio questo saper unire libertà di iniziativa e capacità del singolo di lavorare da solo. Mi ricordo che già al liceo, per esempio, mi piaceva quando c’era un teorema di costruire da me una dimostrazione diversa da quella del libro. Nello stesso tempo disponibilità e anzi necessità del dialogo con colleghi più informati o comunque disposti, anche se meno informati, ad ascoltare e commentare i nostri discorsi, disponibilità al dialogo con studiosi di altre discipline, con la filosofia, con l’arte, con studiosi di materie letterarie o umanistiche; credo che la forza della matematica sia la capacità di unire questi due aspetti: la convivialità e la condivisione del sapere, il desiderio di dialogo e di amicizia con la libertà di immaginare, di lavorare autonomamente sulle idee che ciascuno trova più belle, più interessanti. Questo doppio aspetto della matematica secondo me è il motivo del suo fascino e forse anche il segreto e la sua stessa forza. La capacità umana di riuscire a capire, anche se parzialmente, il mondo senza dimenticare le famose parole di ShakespeareVi sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia”. Questo spiega perché in matematica non c’è un conflitto fra innovazione e amore per la tradizione di ciò che di grande e di bello hanno fatto i matematici che ci hanno preceduto; le due cose, anzi, si completano e si armonizzano. Uno capisce la forza del teorema di Pitagora quando si arriva agli spazi ad infinite dimensioni di Hilbert e al fatto che anche là c’è l’equivalente del teorema di Pitagora: la norma della somma di due vettori ortogonali. Questo fa parte anche di una visione umanistica più ampia: l’idea che la scienza sia parte della sapienza, che ci sia uno stretto legame tra scienza e diritti umani. Per esempio, è molto bello l’articolo (della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo) sulla scuola (art. 26/2) che raccomanda non solo la tolleranza ma anche la comprensione e l’amicizia tra le varie nazioni e i vari gruppi religiosi. La comprensione e l’amicizia sono due nozioni che spesso vengono dimenticate quando si parla di tolleranza; la tolleranza pura è un sentimento molto povero; unito alla comprensione e all’amicizia veramente fa progredire tutta la personalità umana, fa progredire le scienze, che non possono andare avanti senza comprensione e amicizia tra gli scienziati. Questa stessa comprensione ci dice che la comprensione tra i gruppi religiosi suppone anche che ciascuno confessi con molta semplicità quelle idee, quei principi religiosi in cui veramente crede. Per me l’idea della resurrezione, l’idea che la vita non finisce nel breve arco degli anni che abbiamo, l’idea che anche le persone carissime che sono morte vivono in qualche modo ancora, è uno degli elementi fondamentali della mia vita e anche della mia attività di ricerca. E’ uno dei motivi per cui posso continuare a studiare, immaginare cose nuove anche a una età in cui uno potrebbe dire sono verso la fine della carriera accademica, penso che è un tragitto in cui fino all’ultimo devo amare la sapienza in modo completo sperando che quest’amore continuerà anche se in altre forme dopo la morte.


De Giorgi conferisce Lauree all'Università di Lecce

Matematica e ambiente

La matematica richiede da un lato libertà, capacità anche di riflessione personale, dall’altro richiede anche dialogo, confronto con altre persone. Quindi certamente avere un ambiente stimolante, professori, altri studenti, amici disposti a parlare amichevolmente di matematica, di scienza, di filosofia, è importante per la formazione di un matematico come credo per la formazione di un qualsiasi altro studioso. Nel matematico è più accentuata questa complementarietà dell’amicizia, della comunicazione del sapere e dell’autonomia, della libertà, della necessità per ciascuno di raccogliersi poi da solo a meditare, a sognare,   come dico io, seguendo le parole di Shakespeare, gli enti matematici, i mondi in cui la matematica spazia. Io, per esempio, ho studiato e mi sono laureato con il professor Picone all’Istituto di Matematica di Roma; pur essendo nel suo lavoro accademico fedele agli schemi dell’epoca, il cosiddetto “barone”, però nella discussione dei problemi scientifici era una persona estremamente aperta.
Mi ricordo quando eravamo ancora studenti, ci diceva guardate che quando si parla di problemi scientifici potete benissimo dire che io sbaglio perché siamo alla pari di fronte alla scienza”. Era estremamente liberale nel dialogo scientifico pur nel pieno rispetto della disciplina e degli ordini accademici dell’epoca. È stata forse una delle ragioni che hanno fatto di Picone un grande maestro: che ha avuto allievi diversissimi come FicheraCaccioppoli, e tanti altri, con caratteri, con interessi anche matematici molto diversi ma tutti erano stati attratti da questa disponibilità di Picone, dal suo interesse per tutti i problemi, sia per quelli che lui personalmente aveva studiato e risolto sia per quelli che invece interessavano qualcuna delle persone che venivano a parlare con lui.


De Giorgi in udienza da Papa Giovanni Paolo II

Matematica e creatività

Io penso che all’origine della creatività in tutti i campi ci sia quella che io chiamo la capacità o la disponibilità a sognare, a immaginare mondi diversi, cose diverse, a cercare di combinarle nella propria immaginazione in vario modo. A questa capacità, forse alla fine molto simile in tutte le discipline (matematica, filosofia, teologia, arte, pittura, scultura, fisica, biologia, ecc.) si unisce poi la capacità di comunicare i propri sogni, e una comunicazione non ambigua richiede anche la conoscenza del linguaggio, delle regole interne proprie di diverse discipline. Quindi credo che ci sia una capacità di sognare generalmente indistinta come generalmente indistinto era il sentimento che gli antichi chiamavano filosofia, o amore della sapienza, e poi vari modi di comunicare in modo non ambiguo questi sogni, schemi diversi che sono propri delle diverse discipline, e anche delle diverse arti, delle diverse forme del sapere umano. Io vedo questa iniziale capacità comune e poi diversi modi di rendere comunicabili agli altri e in ultima analisi di chiarire a se stessi, perché quando si comunica qualcosa in realtà la si chiarisce anche a se stessi.
Qualunque persona che abbia esperienza di insegnamento sa che insegnare una materia significa capirla meglio di quanto la si capisca prima di averla insegnata. C’è quindi questa capacità che si articola poi in molte forme, da un lato di comunicare agli altri, dall’altro attraverso la comunicazione di approfondire i nostri stessi pensieri, attraverso anche l’ascolto della reazione dell’interlocutore alla nostra comunicazione.
Quello che vorrei con questa intervista apparisse chiaro è l’idea che ho maturato con il passare degli anni, di un fondamento comune di tutte le scienze e le arti, il senso della sapienza come base comune di cui poi tutte le varie discipline sono tante facce che dobbiamo distinguere perché la natura umana, il linguaggio umano ha bisogno per essere chiaro e non ambiguo di fissare di volta in volta certi riferimenti locali e specialistici. Nello stesso tempo non dobbiamo chiuderci nella specializzazione, chiuderci nella matematica, chiuderci addirittura in un ramo della matematica se non vogliamo isterilire anche la nostra creatività in questo ramo speciale, quindi sapere nello stesso tempo rispettare i linguaggi, i metodi, i criteri propri di ogni disciplina ma nello stesso tempo evitare sia il riduzionismo che vuole ridurre i metodi e i linguaggi di tutte le discipline ai metodi e ai linguaggi di una sola disciplina, o addirittura di un ramo di una disciplina, sia la rinunciare al rispetto di alcune regole minime di coerenza e di precisione senza le quali si fanno dei discorsi a ruota libera di cui nessuno riesce a capire esattamente il senso. 
Il consiglio che dico a tutti: pensate con grande libertà ma poi sforzatevi di tradurre i vostri pensieri in una forma realmente comprensibile, realmente chiara e non ambigua e provate a comunicarli ad altri amici ad altre persone per vedere se effettivamente avete trovato la forma giusta.


De Giorgi in conferenza

Matematica e computer

Io credo che il computer è un ausilio utile per chi lo sa usare con una certa sicurezza e libertà, o almeno per chi ha amici che lo sanno usare con sicurezza e libertà di immaginazione. È chiaro che il computer diventa dannoso se uno immagina che sia un 
sostituto della fantasia. La libertà di fantasticare bisogna conservarla intatta e vedere nel 
computer un mezzo di verifica di alcune nostre ipotesi oppure come fonte di suggestioni che ci mostrano dei fenomeni un po’ strani di cui poi dobbiamo immaginare una interpretazione oppure un modo di organizzare le nostre esposizioni. È certamente un ausilio utile e importante. E’ esso stesso una fonte di problemi; chiedersi cosa è computabile, cosa non è computabile, oppure quali sono i tempi di esecuzione di una certa operazione. Indubbiamente da questo punto di vista la stessa esistenza dei computer
rappresenta un problema e quindi una fonte di nuove idee per la matematica. La teoria astratta delle funzioni computabili poteva essere fatta anche in assenza di computer, anche se l’idea di una macchina calcolatrice è abbastanza vecchia; come Pascal e Leibniz, molti hanno pensato di meccanizzare in qualche modo il calcolo matematico. Gli stimoli a pensare cosa è meccanizzabile nell’idea di algoritmo, con più ampia interpretazione del concetto di meccanizzabile; c’è lo studio amplissimo delle macchine ideali che dovrebbero per esempio lavorare per miliardi e miliardi di anni. Anche nello studio dei computer c’è poi un passaggio quasi insensibile dai computer concretamente fabbricabili o di cui si può immaginare la fabbricazione concreta in tempi non troppo lontani e i computer ideali che hanno struttura logica simile a quella dei computer concreti e che però hanno altre caratteristiche, per cui è da escludere la loro concreta fabbricazione.
Quindi in fondo anche lo studio dei computer oltre che strumento utile del lavoro matematico è anche oggetto utile della riflessione matematica. Anche loro si prestano ad essere immersi in quel campo più ampio di cose visibili e invisibili, costruibili e non costruibili, computabili e non computabili.


Lectio Magistralis di De Giorgi alla Sorbona di Parigi

Matematica e cultura

Credo che culturalmente la ri×essione su quelli che sono i concetti fondamentali della matematica, di cui in fondo gli assiomi rappresentano il tentativo di esporli nel modo più chiaro e meno ambiguo possibile, sia uno degli aspetti culturalmente più importanti della matematica antica e moderna. Del resto, non è che questa discussione sia dei nostri tempi, è già cominciata nella disputa sui postulati di Euclide. Altra lunga disputa, forse mai completamente risolta, è quella sui fondamenti del calcolo infinitesimale, se potevano essere ritenuti “rigorosi” o meno, le varie forme successive di assiomatizzazione del calcolo infinitesimale e questi sono argomenti culturalmente importanti e fanno parte, dovrebbero far parte, almeno come notizia, della cultura di ogni persona. Da parte mia mi sono sempre occupato del ruolo degli assiomi fondamentali, dei concetti base della matematica e delle altre scienze; credo che il problema di un’assiomatica anche della fisica, della biologia, sia egualmente necessario. 
Un tentativo di assiomatizzare vuol dire semplicemente tentare di dire con maggior chiarezza e semplicità possibile quelli che ci sembrano i dati da cui partiamo nei nostri discorsi di matematica, di biologia, di fisica, di economia,ecc. Molti di questi discorsi sugli assiomi li ho fatti trovando un notevole interesse nella facoltà di economia di Roma. In fondo l’economia ha anch’essa dei problemi assiomatici, vedere quali sono le affermazioni fondamentali riguardanti il valore, la moneta, il mercato, l’operatore.
Probabilmente anche in economia si potrebbe arrivare a una notevole chiarificazione dei concetti adottando quello che è il metodo assiomatico, il metodo di dire nel modo schematico più semplice possibile, quelle che sono ritenute le verità fondamentali di una determinata disciplina, o almeno la proposta di quelle che chi parla ritiene verità fondamentali o concetti o metodi fondamentali; naturalmente chi enuncia gli assiomi è anche libero di precisare in che senso questi suoi assiomi li intende e vuole farli intendere; credo che questo metodo sia comunque culturalmente valido e il più importante. Soprattutto è importante non pensare che questa sia una operazione specialistica. Se uno pensa che ci siano gli specialisti dei fondamentali della matematica e che uno deve parlare e deve essere ascoltato e compreso solo dagli specialisti, già ha perso, secondo me, il significato di quello che deve essere la ricerca dei concetti fondamentali della disciplina. Il che non vuol dire che alcune ricerche specializzate sui teoremi di Gödel, sulla computabilità, sulle questioni indecidibili non siano importanti e non debbano essere sviluppate. È anche importante secondo me riuscire a far capire che almeno le radici di queste questioni sono in domande perfettamente comprensibili o che dovremmo rendere perfettamente comprensibili a ogni persona colta. Naturalmente anche dalla persona colta ci vuole certo uno sforzo simmetrico, la voglia di occuparsi di queste cose, di dedicarvi una ragionevole attenzione.
Nell’antichità ci fu un’ampia discussione sui numeri irrazionali che in fondo era un concetto di fondamenti. 
Riteniamo che numero è solo il numero intero; che ci possano essere anche altre possibilità? 
La divisione attuale o potenziale di un segmento in infinite parti. Questi discorsi fecero parte, potrebbero far parte anche oggi di discussioni. Alla radice spesso si vede una grandissima affinità tra i problemi antichi e moderni. Per esempio, la vecchia antinomia del mentitore è tutt’ora, in varie forme, uno dei nodi centrali della riflessione logica sui fondamenti della matematica. In fondo questo interesse delle persone colte del mondo greco per l’antinomia del mentitore o per il problema della esistenza di numeri irrazionali, o curiosità analoghe, potrebbero essere, e dovrebbero essere ancora elemento centrale del dibattito, della riflessione culturale del mondo moderno, anche perché una serie di risultati tecnici come i teoremi di Gödel ci fanno riflettere: sappiamo veramente che cosa sono i numeri naturali? 
Quella che intuitivamente mi sembra la risposta più semplice da dare all’ascoltatore esterno sui risultati di indecidibilità di Gödel è quella di dire: noi pensiamo che in qualche modo la totalità dei numeri naturali ci sia, anche se questo pone un altro problema: cosa vuol dire esserci di un oggetto matematico.
Comunque, nei limiti di questo ulteriore dibattito sull’ esistenza degli oggetti matematici, uno può dire: noi lavoriamo pensando che esista l’insieme di tutti i numeri naturali; d’altra parte pensiamo anche che non c’è nessun sistema finito di assiomi che descriva completamente l’insieme di tutti i numeri naturali e quindi qualunque assioma sulla somma, il prodotto, l’ordine, le classi di numeri naturali, sarà soddisfatto da quello che potremmo chiamare l’insieme dei numeri naturali “veri”, ma ci saranno anche tanti altri insiemi di oggetti, detti numeri naturali non standard, che verificano gli stessi assiomi. Non riusciamo mai a dare un numero finito di assiomi che caratterizzi univocamente solo i numeri naturali “veri”. Non so se questo discorso è un discorso che può essere compreso da una persona colta anche non matematica. L’insieme dei numeri naturali è un insieme così complesso, così misterioso che qualunque informazione noi riusciamo con le nostre capacità di linguaggio umano a dare sui numeri naturali non è ancora mai la descrizione esauriente della struttura dei numeri naturali. Questo non meraviglia, in fondo l’insieme dei numeri naturali è infinito, quindi non meraviglia che con parole finite noi possiamo indicarlo, possiamo segnalarne molte caratteristiche ma non le possiamo descrivere tutte e nemmeno ne possiamo descrivere un numero finito di caratteristiche da cui tutte le altre siano deducibili. In fondo l’indecidibilità ci dice che ci saranno sempre delle caratteristiche che non sono deducibili da quella informazione finita che noi abbiamo dato sui numeri naturali.


Alcuni libri di Ennio De Giorgi (produzione e testi)

Matematica e linguaggio

Molte volte si dice: se facciamo una nota scientifica in italiano nessuno la legge, il che poi non è vero: se la nota è veramente buona, in realtà viene letta. 
Personalmente ho sempre scritto in italiano, sono incapace di scrivere di getto in inglese, ho visto però che le note che avevano un qualche valore erano conosciute in un tempo abbastanza breve. 
Penso che bisognerebbe, cominciando dalle note prima ancora che dai libri, far capire che è importante che ci sia un gran numero di note su argomenti moderni, scritte in buon italiano se non vogliamo che l’italiano si atrofizzi come lingua scientifica. Questo è un grosso problema, quello della conservazione all’italiano della capacità di essere una lingua scientifica e anche una lingua scientifica naturalmente flessibile, capace sia di creare nuovi vocaboli sia di assumere vocaboli stranieri e integrarli nel suo contesto, comunque capace di avere costrutti sintattici, grammaticali che siano nello stesso tempo linguisticamente eleganti anche se non con l’eleganza di un secolo fa o di due secoli fa, che siano molto chiari, molto leggibili, anche molto traducibili in lingue straniere, anche perché si corre il rischio che tutta la produzione scientifica sia scritta solo in inglese da persone che conoscono piuttosto male l’inglese, ha l’effetto di un impoverimento della letteratura
scientifica anche come forma di letteratura linguisticamente bella, il che secondo me è molto pericoloso. In fondo perché ci siano molti lavori ben scritti in inglese e nello stesso tempo chiari ed eleganti dal punto di vista artistico, è utile che anche nelle principali lingue che hanno una grossa tradizione di letteratura scientifica continui questa volontà di scrivere dei buoni lavori e dei buoni libri moderni ma non piatti e sciatti sul piano linguistico; questo è uno dei problemi che vanno posti all’attenzione di tutte le persone che lavorano in matematica e in fisica, in ingegneria e nelle altre scienze. Mantenere il contatto con la comunità internazionale, magari imparare l’inglese e il francese o il russo meglio di quanto non sia capace io, che non sono molto portato alle lingue, e allo stesso tempo sforzarsi di produrre lavori scritti in buon italiano, il che non vuol dire lo stesso
italiano dei lavori scientifici di 50, di 100 anni fa. Fare che la lingua si evolva ma si evolva adeguandosi anche al modificarsi delle conoscenze scientifiche, si evolva restando una lingua bella ed espressiva anche nell’esposizione delle più moderne teorie scientifiche. Nella divulgazione alternare a esposizioni di problemi particolari, la presentazione a un pubblico vario di problemi di tipo invece più generale, per esempio sul significato della parola "esiste" in matematica, sul rapporto tra realtà fisica e realtà matematica, ecc. Cercare che tutta la gamma di riflessioni dal particolare al generale, dallo storico al moderno sia presente alle persone che hanno delle curiosità. Tenere conto del grande ruolo che la storia della scienze può avere nella comprensione delle discipline scientiÖche attuali; nello stesso tempo non cadere in quella forma di riduzionismo che è lo storicismo, il pensare che noi sappiamo tutto su un certo argomento quando abbiamo conosciuto la storia di quell’argomento. 
Accanto al punto di vista storico c’è il punto di vista metastorico: si chiede tu che cosa pensi di questa cosa. Nella stessa storia è giusto dire: non attribuiamo a una persona idee che ancora non esistevano ai suoi tempi, senza dimenticare che alcune idee iniziali di 500, 1000 anni fa, avevano in sé la potenzialità di certe implicazioni che sono state scoperte successivamente. Chi ha scritto certi assiomi non poteva sapere tutti i teoremi che da quegli assiomi sarebbero stati dedotti però la conoscenza di tutti questi teoremi indubbiamente è un elemento che ci fa apprezzare di più l’intuito iniziale di quella persona che ha scritto quegli assiomi. Riconoscere l’importanza della storia ma non prendere la mentalità storicistica. Il tutto va visto come dicevano gli antichi "sub specie aeternitatis", vedere in fondo certe idee come sono rimaste attraverso l’evoluzione del tempo anche se espresse in modo diverso. Certi motivi ritornano in forme diverse in epoche molto lontane; è importante avere questa duplice visione. Come per esempio a concetti analoghi sono arrivate civiltà diverse non comunicanti tra loro, almeno nel momento in cui certe idee dall’una e dall’altra venivano scoperte. Quindi saper vedere insieme l’aspetto storico e l’aspetto che non so come chiamare, chiamiamolo metastorico.


Il teorema di De Giorgi-Nash sulla regolarità delle equazioni 
differenziali ellittiche

Matematica e intuizione

Il ruolo dell’esistenza, o della realtà, degli enti matematici. Il realismo di chi dice: i teoremi ci sono, vi è una successione di proposizioni che esiste in sé e viene scoperta prima o dopo. Invenzione e scoperta sono molto affini, tutte e due vengono da “il trovare”; nell’idea di scoperta c’è l’idea di “togliere la coperta”, di qualche cosa che c’è già e che viene in qualche modo messo in luce mentre prima era nascosto. L’invenzione è qualche cosa che si trova, il trovare perché era nascosto o trovare perché si costruisce, questa è un discorso che non ha una risposta dimostrabile; alla fine l’eterno problema di che cosa vuol dire conoscere, che cosa vuol dire sapere, che vuol dire inventare, un discorso che alla fine sbocca nel percorso misterioso della sapienza. In mezzo ci sono tante altre cose di cui constatiamo l’esistenza, constatiamo, per esempio, il fatto che un assioma enunciato in un certo secolo ha come conseguenza logica necessaria un teorema la cui dimostrazione è trovata molti secoli dopo. Per le dimostrazioni sarei portato più a parlare di invenzione mentre per gli enunciati dei teoremi sarei più portato a parlare di scoperta; anche perché di fatto la dimostrazione in fondo è il ritrovamento di una delle possibili strade attraverso cui da certi assiomi si arriva a un certo teorema; quindi ha veramente qualcosa di più inventivo, di costruzione, di quanto non abbia il teorema stesso. Del resto è abbastanza frequente che due matematici trovino in modo del tutto indipendente lo stesso teorema come enunciato, poco probabile che senza essersi mai incontrati diano veramente la stessa dimostrazione. Il teorema è qualcosa che si scopre, la dimostrazione qualcosa che si inventa di più. Un caso di mia esperienza personale; io e Nash siamo arrivati a dimostrare lo stesso teorema ovvero due teoremi molto vicini; dal teorema di Nash si deduce quasi immediatamente il mio teorema, seguendo delle vie dimostrative completamente diverse. (De Giorgi parla del famoso teorema di De Giorgi-Nash sulla regolarità delle equazioni differenziali ellittiche)² 
Quindi anche dalle mie esperienze vedo più la scoperta del teorema che effettivamente può essere fatta da diverse persone come se il teorema stesse là, aspettasse qualcuno che lo scoprisse, mentre credo alla invenzione delle dimostrazioni che possono variare moltissimo a seconda del matematico che le trova. Molto spesso di uno stesso teorema inizialmente viene trovata una dimostrazione molto complicata e successivamente attraverso varie riflessioni si arriva a semplificarla, a renderla più elegante, a renderla magari adatta a dimostrare teoremi più generali; c’è effettivamente più scoperta negli enunciati dei teoremi e più invenzione nella dimostrazione dei teoremi. Anche se da un punto di vista logico uno può dire che anche le dimostrazioni non sono che una catena di proposizioni ciascuna delle quali può essere considerata un teorema, però di fatto, dal punto di vista psicologico, c’è più questa sensazione di scoperta in un caso e più di invenzione nell’altro.


De Giorgi insegnante alla "lavagna"

Matematica e insegnamento

Un’idea è quella che ho già enunciato, cioè bisognerebbe nei primi due anni di università ritornare alla unione dei corsi per matematici, fisici, ingegneri, almeno per quella che è la matematica di base. Questo servirebbe anche a creare quel linguaggio scientifico minimo, comune tra le varie discipline oltre a trovare empiricamente quella amicizia tra matematici, fisici, ingegneri che è molto utile anche per il futuro. Certe amicizie o si fanno quando si è all’università o dopo si fanno molto più difficilmente. In seguito ognuno è incasellato nella propria disciplina.
Magari farà il lavoro specifico in collaborazione con il matematico, il fisico, l’ingegnere ma difficilmente prenderà l’abitudine, senza nessun fine pratico immediato, di parlare liberamente dei propri problemi e cercare di spiegarli e di farseli spiegare da studiosi di diverse discipline.
Anzi un’ideale, forse mai realizzato in Italia, sarebbero dei corsi di matematica di base che oltre a fisici e ingegneri raggiungessero anche i chimici; in fondo hanno quantitativamente un corso di matematica non molto inferiore a quello degli ingegneri e degli economisti. Se queste discipline che utilizzano piuttosto massicciamente la matematica avessero dei corsi comuni probabilmente avremmo qualcosa di più della pura utilizzazione, avremmo la formazione di una base linguistica e anche di un’abitudine alla conversazione tra studiosi di diverse discipline che secondo me sarebbe preziosa. Naturalmente, nulla vieta che poi accanto a questo insegnamento di base ci siano dei seminari specializzati su argomenti che possano interessare alcuni matematici, fisici o biologi; senza escludere che, per esempio, un biologo possa avere l’interesse a seguire un seminario sui gruppi finiti. Accanto a questi corsi di base di matematica per tutti, nulla vieterebbe l’esistenza di alcuni seminari specializzati che potrebbero avere carattere prevalentemente matematico, fisico, economico ma a cui potrebbe assistere per proprio gusto e fantasia qualche persona che poi non seguirà la disciplina per cui quel seminario è svolto. 
Del resto c’è un libro molto interessante di Andre Weil³  in cui parlando della sua formazione notava che quando era normalista (all’Ecole Normale Superieure di Parigi) studiava un po’ di matematica e molto di sanscrito. È anche questo che secondo me le nostre università dovrebbero ritrovare.
Non dico che tutti i nostri studenti debbano studiare sanscrito come Weil però che nello studio universitario accanto ai corsi obbligatori uno spazio non trascurabile, il 10%, 20% del tempo, sia effettivamente dedicato dagli studenti alle cose che a loro interessano in modo del tutto disinteressato. Una delle cose che vedo è che purtroppo anche alla Normale troppo spesso lo studente alla fine pensa solo alle cose che sono obbligatorie, ai corsi in cui deve dare l’esame e si interessa poco alle cose che invece dovrebbero interessarlo per puro amore della sapienza. In questo campo nella stessa Normale, dove pure vengono offerti molti di questi seminari, conferenze che non comportano esame, vorrei che questa offerta da parte degli studenti fosse apprezzata di più. Probabilmente bisognerebbe trovare il modo di alleggerire la parte obbligatoria dei corsi in tutti i campi e lasciare un po’ più di questi spazi alla libertà. Il fatto che il corso, qualche volta, cresca sulla base del dialogo, delle osservazioni, della meditazione, che contenga più problemi aperti che problemi risolti, qualche volta vedo che nel ragazzo dà un senso di smarrimento. Lo studente vorrebbe sapere “questo è il programma, ci saranno questi teoremi, saranno dimostrati tutti o in parte con precisione”; l’avere di fronte a sé un binario già ben prestabilito è sentito come più rassicurante che sentire, come sul “Corrierino dei Piccoli”: qui comincia l’avventura. Certamente riconosco che l’80% del tempo dovrà giustamente essere dedicato a corsi che hanno già prestabilito un inizio e una fine. Quindi in cui ci sia un programma ben delimitato attraverso cui ci sia la acquisizione di sistemi ormai stabili di conoscenza che sono necessari anche come base di tutte le future chiamiamole avventure. Però un po’ di spazio anche al corso-avventura in cui la stessa persona che lo tiene non sa esattamente quale sarà la fine, anche questo dovrebbe esserci nell’insegnamento universitario. Corsi con queste caratteristiche o cicli di seminari, chiamateli nel modo che ritenete migliore, secondo me dovrebbero essere parte dell’insegnamento universitario. Del resto una cosa analoga anche se in campi apparentemente diversi è quando si è proposto, parlando dell’insegnamento nelle scuole medie, argomenti che vanno sotto il nome di “Diritti Umani”, nome forse anche un po’ restrittivo perché la dichiarazione del ’48 (Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo) parla di diritti ma usa anche frasi più ampie tipo l’amicizia e la comprensione. Una frase ancora più impegnativa parla della fede e della dignità e del valore della persona umana. Io pensavo che quella dichiarazione più che far parte di un corso di educazione civica o storia o qualche altra cosa, dovrebbe essere all’inizio dell’anno distribuita a tutti gli studenti. Questa è la dichiarazione che potrà essere poi discussa sia nell’ambito dei corsi sia nelle assemblee, nelle riunioni, dove riterrete più opportuno.
Vorremmo comunque che tutti inizialmente sapessero che c’è questa dichiarazione, sapessero che per la sua ampiezza mal si presta come parte di un singolo corso e sapessero però che è qualcosa che può essere accettato, criticato, respinto ma con cui comunque è importante confrontarsi. Questa non è una cosa su cui dovrete rispondere all’esame ma una cosa con cui, con libertà di coscienza, vi dovreste confrontare tutti quanti, anche magari per dire: “Io la rifiuto”.
Però è un testo che non può essere messo insieme a tutte le altre materie dì insegnamento; che tutti siano portati a conoscenza dell’esistenza di questo testo, tutti si confrontino con questo testo nei modi che liberamente la scuola, nelle sue varie componenti deciderà più opportuno e più utile.
È un po’ l’idea del confronto aperto… È una vecchia proposta che io rilancio, una volta o l’altra forse troverò il ministro che dice:“Distribuiamo all’inizio dell’anno a tutti gli studenti, ai professori di tutte le scuole una copia della Dichiarazione”. Che poi sono cinque, sei paginette che prodotte in massa avrebbe un costo infinitamente più basso di tutte le circolari che vengono diffuse dal ministero. L’altra mia proposta più ardita era quella di inserire nella Costituzione Italiana la Dichiarazione Universale del ’48. Questo inserimento arricchirebbe la Costituzione Italiana, non contrasterebbe con gli articoli. Invece di alcuni articoli che parlano di diritti umani occasionalmente, avremmo l’inserimento di una dichiarazione che effettivamente enuncia ciò che si deve intendere per diritti umani in modo sintetico e coerente. Sarebbe qualcosa che rafforzerebbe la nostra Costituzione, rafforzerebbe anche il prestigio dell’Italia nel mondo, perché adesso il lettore paziente che sa bene o male l’italiano fa un certa fatica a vedere quali
diversi diritti sono riconosciuti nella nostra Costituzione. 
Se trovasse al primo posto: l’Italia riconosce tra i propri principi fondamentali quelli sanciti dalla Dichiarazione sui Diritti Umani del 10/12/48, avrebbe un testo che c’è in tutte le lingue e quindi conoscerebbe con certezza tutti i diritti e tutta l’idea del diritto che è a fondamento della Costituzione. Infine, l’ho già accennato nell’introduzione, per me la prospettiva della resurrezione, della vita eterna è una prospettiva importante per inserire tutto questo quadro di riflessioni sapienziali. Altrimenti sentirei l’amore per la sapienza come un sentimento illusorio.


Note

¹ "Scripta volant, verba manent" è anche il titolo di un libro di Ennio De Giorgi, collocato in una serie di filosofia.
Oltre a un ricco inserto fotografico, al libro è allegato un video che documenta un momento importante della vita di De Giorgi: l'incontro-dibattito del 1996 con un altro grande del pensiero matematico, il Nobel John Nash.
² E.De Giorgi “Sulla differenziabilità e l’analiticità delle estremali degli integrali multipli regolari”, Mem. Acc. Sci. Torino 3 (1957) 25-43; J. Nash “Continuity of solutions of parabolic and elliptic differential equations”, Amer.J. ofMath. 80 (1958) 931-953) 
³ A. Weil “Souvenirs d’apprentissage”, Birkhàuser Verlag, Basel, 1991; ed it. “Ricordi di apprendistato” Einaudi 1994