martedì 22 settembre 2015

Infinito e Indefinito

La cena si prospetta normale, nessuno dei due predilige la pizza, quindi si comincia con un antipastino freddo di pesce, “poi” - diciamo al cameriere – “si vedrà”. 
È l’ultimo giorno di ottobre e gli altri hanno dato forfait, ci siamo trovati solo in due: Virgilio ed io. 
Si comincia a chiacchierare del più e del meno. I nostri argomenti sono leggeri, quasi frivoli, nessuno di noi due ha preparazione sufficiente per affrontare le questioni kültürali profonde: ascendenze astrali per la corretta interpretazione dell’oroscopo, la prossima edizione del Gi Effe (Grande Fratello), i grandi temi del pacifismo, dell’ambientalismo no global, Zosimo, i profondi pensieri di Celentano, ecc. 
Ci limitiamo a qualche commento alla buona su “San Pietro”, l’ultimo sceneggiato trasmesso dalla Rai, sul diffondersi della cultura della menzogna e del rifiuto sistematico della verità anche di fronte all’evidenza. Io affermo che, pur di non recedere dalle convinzioni ideologiche proprie, o credute per fede partitica, si nega o si fanno affermazioni aberranti. 
Poco prima della fine dell'antipasto, proprio su questa questione della verità e sul significato autentico del termine, riporto, a titolo di esempio, un episodio che mi ha visto coinvolto: discutevo recentemente con un amico circa i numeri primi e gli enigmi ancora irrisolti che li avvolgono: uno fra questi il fatto che siano o meno “infiniti”. Racconto quindi ad Virgilio di come l’amico mi abbia ricordato che esiste più di una dimostrazione matematica che dimostra la loro infinità, e di come io abbia ammesso con franchezza la sua ragione ed il mio torto. 
E qui Virgilio, dopo avermi ascoltato, esprime un concetto inusitato: 
i numeri primi, ma anche i numeri naturali, non sono “infiniti”, sono “indefiniti”. 




Rimango per qualche secondo senza parole, cercando di risalire mentalmente al significato etimologico e sostanziale dei due termini, nonché di cogliere l’essenza del ragionamento che ne deriva. 
Veniamo interrotti dal cameriere, che ci propone altri piatti; io avevo accarezzato l’idea di un fritto di calamari, ma poiché debbo restare lucido, viro su un’innocua mozzarella, rinunciando al vinello frizzante che aveva accompagnato l’antipasto. 
Dunque, penso tra me e me, i numeri non sarebbero infiniti. Riaffiora nella memoria, dai tempi dell’università, la teoria di un fisico nucleare che sostenne la finitezza dei numeri: la logica del ragionamento, in termini assai poveri, era la seguente: i numeri son fatti per contare, per “numerare” appunto. I protoni sono i componenti minimi ed indivisibili della materia. I granelli di polvere e le stelle son fatti di atomi, e il nucleo degli atomi è fatto di protoni. Fatta una stima di tutta materia presente nell’universo, la quantità totale di protoni è un numero composto da circa ottanta cifre. Andare oltre questo numero è solo una finzione logica, perché non vi sarebbe più nulla da “numerare”. 
L’”infinità”, - prosegue dal canto suo Virgilio - è una caratteristica che trascende la capacità umana di comprensione. L’”indefinitezza”, invece, ci conduce ai confini delle dimensioni dello spazio, del tempo e della quantità, poi avvolge la mente in una sorta di nebbia che impedisce di spingere oltre il pensiero. La mente è costretta a fermarsi. 
Non trovo argomenti da opporre. 
E mi ritornano alla memoria i versi immortali di Leopardi:
… Così, tra questa
immensità, s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Autore: Ugolino 



Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l’immaginativa è capace dell’infinito o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di concepire indefinitamente. La qual cosa ci diletta, perché l’anima, non vedendo confini, riceve l’impressione di una specie d’infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito, non però comprende né concepisce effettivamente nessuna infinità.

L'ultimo verso leopardiano del post di Ugolino mi ha ricordato queste poche righe dello Zibaldone (del 4 gennaio 1821) che, credo, riflettano perfettamente il pensiero di Leopardi sull’infinito, mettendo in luce appunto la distinzione tra “infinito” e “indefinito”.



"Verso dentro" opera di Tobia Ravà

Ma l'infinito o l'indefinito per un matematico o un fisico? 

Partendo dal presupposto che la differenza sostanziale consiste nel fatto che un oggetto è indefinito quando non è possibile definirne le dimensioni che però sono proprie dell' oggetto in questione e che, al contrario, un oggetto è infinito quando non è possibile definirne le dimensioni perché queste non sono proprie dell'oggetto, si potrebbe rendere più chiara la distinzione con un esempio, considerando una linea e un filo.
Se tracciamo una linea verticale alla lavagna notiamo che avvicinandoci o allontanandoci da essa le dimensioni della linea (valutate relativamente alla nostra posizione) risulteranno scalate proporzionalmente alla nostra distanza dalla lavagna, mentre se ci mettiamo "col naso appiccicato alla lavagna", la lunghezza della linea verticale ci sembrerà infinita.

Sostituendo alla linea un filo ci accorgiamo che, in fisica, quando si parla di filo indefinito significa che stiamo valutando una qualche proprietà del filo ponendoci ad una distanza nulla dal filo, cioè facendo in modo da integrare tale proprietà tra  -oo  e  +oo , cioè consideriamo il filo come se avesse lunghezza infinita, ma visto che un filo infinito non è fisicamente possibile che esista,  implicitamente sappiamo che quel filo per quanto lungo possa essere sarà pur sempre finito. Riassumendo: il filo non lo possiamo considerare infinito perché non è fisicamente possibile che esista ma allo stesso tempo lo possiamo considerare tale a patto di porci a distanza pressocché nulla da esso, dunque questo filo è contemporaneamente finito e infinito, cioè indefinito.   




giovedì 10 settembre 2015

Odio e amore...una dicotomia matematica!

Come si legge in qualunque dizionario, il termine dicotomia deriva dal greco διχοτομία , dichotomìa, composto da δίχα (dìcha, in due parti) e τέμνω (témno, divido) ed è usato prevalentemente in matematica, filosofia e linguistica. 
Per dicotomia si intende dunque la divisione di un'entità in due parti (che costituiscono una diade) che non necessariamente si escludono dualisticamente a vicenda, e che possono essere complementari.
Quindi si può considerare una dicotomia come una partizione in 2 parti. 
Per esempio, se preso un concetto A è possibile dividerlo in due parti B e non-B, allora le due parti formano una dicotomia, dato che nessuna parte di B è contenuta in non-B e che la somma di B e non-B fa esattamente A.
Le dicotomie comunque costituiscono una caratteristica tipica del mondo matematico: dalle dicotomie più "raffinate" quali la famosa dicotomia di Zenone , la dicotomia di Kant (Le verità della matematica sono analitiche o sintetiche?) o quella di Godel (La matematica soggettiva coincide con la matematica oggettiva?), a quelle più "comuni" che vedono i matematici puristi da un lato e pragmatici dall'altro, o forse ancora più "ricorrenti" come l'odio/amore o matofobia/matofilia per la matematica.


Sfondo "La Lettura o Catullo e Clodia", olio su tela di Giulio Aristide Sartorio 

Il Carnevale della Matematica #89 di settembre, ospitato dal blog "Math is in the Air" ha come tema proprio una di queste dicotomie: "Odi et Amo la matematica" .
Le prime parole del tema sono inequivocabilmente l'inizio del carme 85  del poeta latino Catullo, l'epigramma più noto di tutto il suo Liber.


Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia.
Non lo so, ma sento che ciò accade e sono messo in croce

Anche se il contrasto di sentimenti che l'amore provoca (Ti odio e, contemporaneamente, ti amo) è uno dei tòpoi più comuni nella letteratura mondiale di ogni tempo, in Catullo c'è qualcosa di più perché qui il dramma si acuisce con la triste constatazione che tale difficoltà nasce indipendentemente dalla volontà umana. 
Al Poeta non resta altro che prendere atto della situazione e soffrirne terribilmente: il verbo excrucior, che letteralmente significa "sono messo in croce", rimanda con la sua pronuncia all'idea del dolore lacerante. 

E sembrerebbe nascere indipendentemente dalla volontà umana, l'odio e l'amore per la matematica, che, in alcuni casi, mette proprio in croce il malcapitato di turno.
E così arriviamo a considerare la dicotomia, tutta matematica, matofobia e matofilia.
Il termine matofobia, che deriva dalla fusione delle parole matematica e fobia, sta a significare proprio paura della matematica, ovvero antipatia per la disciplina, anche se in realtà, data la radice greca della parola matematica (μάθημα máthema, ovvero apprendimento), può essere anche intesa in senso più ampio come paura per l'apprendimento.


 Per superare questa matofobia ci vorrebbe un mago

Il matematico sudafricano Seymour Papert  sostiene che tale fobia ha una natura sociale e nasce proprio durante il percorso scolastico. 
I bambini nascono infatti con una grande voglia e capacità di imparare e le difficoltà di apprendimento, in relazione a qualsiasi disciplina, non nascono spontaneamente, ma vengono indotte con l'insegnamento. 
La grande voglia di apprendere, la matofilia si trasforma in matofobia, ovvero il bambino che amava l'apprendimento e la matematica, successivamente riesce a temerle entrambe. 
Il carattere sociale della matofobia è giustificato, secondo Papert, anche da un'altra dicotomia, radicata purtroppo nella maggior parte degli esseri umani, quella tra "persone intelligenti" e "persone stupide" e, di conseguenza, ritenendo erroneamente che la matematica sia una disciplina per pochi eletti, si arriva a pensare che esistano "persone portate per la matematica" e "persone negate per la matematica", come se le abilità matematiche fossero innate. 
Quante volte si sentono affermazioni di disprezzo, di avversione, di odio nei confronti della matematica,  da parte di tutte quelle persone che forse non conservano un buon ricordo della loro vita scolastica proprio in relazione a questa disciplina. 
Si attaccano ai ricordi di insuccessi scolastici legati alla risoluzione di problemi o alle dimostrazioni di teoremi, all'ansia dei compiti in classe di matematica che scatenavano quel senso di limitazione e di impotenza, generando scoramento e avversione per la matematica.
Le ricerche di Papert, e non solo, dimostrano che nella maggior parte dei casi la matofobia nasce nelle aule scolastiche, soprattutto a livello di istruzione primaria. 
In tale contesto operano, spesso, degli educatori che sono essi stessi affetti da matofobia e che, trovandosi costretti a insegnare qualcosa che non amano, trasmettono all'alunno l'avversione per la disciplina.

Come spesso dico a studenti, genitori e colleghi, il vero successo di un insegnante non sta nel riuscire a trasmettere concetti ma riuscire a scatenare l'interesse e l'amore per la matematica.




Non posso dimenticare, alle Medie, la professoressa d'altri tempi già per allora, la "famigerata" e "temutissima" signorina Massarani. 
Sempre rigorosamente con il grembiule nero, arrivava, davanti alla porta ed immediatamente il nostro chiasso fanciullesco si interrompeva e, mentre un'aria gelida sembrava attraversare l'aula, noi in piedi aspettavamo che salisse sulla cattedra, da dove ci scrutava attraverso spesse lenti, quelle stesse che causavano immancabilmente sbagli di riga e di voti, che demoralizzavano e demotivavano alcune mie compagne. 
Parlava a voce bassa, in un silenzio perfetto, e riempiva velocemente la lavagna di numeri, simboli, figure geometriche, sempre con il cancellino nella destra ed il gessetto che strideva nella sinistra, mentre controluce si notavano anche lunghi peli sul mento che ricordavano nonna Abelarda.
Era severissima ma nello stesso tempo le sue lezioni erano coinvolgenti e facevano trasparire il suo amore, direi quasi esclusivo (era infatti "zitella") per le espressioni, le equazioni, i problemi di geometria e la storia dei grandi matematici. 
Parlando ancora adesso con una compagna di allora e amica cara di oggi, Annalia, mi rendo conto come sia stata per molte di noi uno stimolo per amare questa materia, ma nello stesso tempo un ostacolo per molte altre pur essendo riuscita a stimolare in tutte forse quella sottile voglia di trovare una soluzione ai problemi. 
Io amo la matematica, Annalia no, ma la voglia di voler a tutti i costi arrivare a risolvere una situazione, un problema, un gioco, è una caratteristica che ci accomuna e che forse ci ha "inculcato" proprio quella nostra insegnante innamorata della matematica!

Annalia ed io siamo un esempio di matofobia e di matofilia, quindi non può essere solo "colpa" dell'insegnante e per amare o odiare la matematica devono entrare altre componenti. 
Certo esistono insegnanti che non sanno stimolare la curiosità degli alunni, o che non riescono a presentare la matematica con semplicità e giocosità, che non ne esaltono l'aspetto storico e logico, che non tentano soprattutto di evidenziarne le implicazioni con altre discipline come filosofia, storia dell'arte, musica.....e "chi più ne ha più ne metta", perché è solo così che la matematica può, se non proprio essere "amata", almeno non essere "odiata"!
La scarsa preparazione degli insegnanti, o l'"odio" per la matematica da parte di docenti che si trovino ad insegnarla pur non essendo specialisti in materia, non sono certo da sottovalutare e come, sosteneva Alessandro D'Avenia in un articolo apparso tempo fa sul Corriere della Sera "Insegnanti questa scuola non è un'anagrafe", esistono docenti, ma anche in-segnanti che si dimostrano in-docenti o addirittura in-decenti.



Ma quali sono le altre componenti che possono "scatenare" questa matofobia?
Sempre il nostro studioso Seymour Papert, insieme alle già citate componenti che riguardano lo stretto insegnamento e di cui avevo parlato in un precedente articolo "Matematica.....ma quale?" quali appunto:
- Scarsa preparazione degli insegnanti, soprattutto nella scuola primaria
- Odio per la matematica da parte dei docenti che si trovino ad insegnarla pur non essendo  specialisti in materia
- Assenza di situazioni di classe che stimolino la motivazione dei discenti
- Contratto didattico
- Eccessivo uso del formalismo
ne elenca alcune altre:
- Reiterata impotenza nella risoluzione di un problema
- Ansia associata all'eventuale insuccesso
- Convinzione dell'attitudine congenita per la matematica
- Convinzioni sociali circa l'inutilità della matematica
- Netta divisione tra "sapere scientifico" e "sapere umanistico"
- Cattive prassi dei genitori che odiano la disciplina

Sarebbero tutte da valutare con attenzione e forse ce ne sono altre legate anche a fattori davvero congeniti e costituzionali, ma non voglio fare di questo post un trattato e lascio alla curiosità dei lettori "sviscerare" quelle componenti che qui non ho voluto evidenziare.
Componenti che si possono approfondire nel famoso libro di  Seymour Papert  "Mindstorms - Children, Computers, and Powerful Ideas". di cui c'è anche una traduzione in italiano di Anita Vegni "Mindstorm - Bambini, computers e creatività".



Testo di Analisi I (parte seconda) di Giovanni Ricci
Il testo era tratto e copiato direttamente dagli appunti scritti "a mano" dal Maestro

Proprio come in Catullo, questo mio amore per la matematica, a volte, ha convissuto con l'odio o ne è stato addirittura sovrastato!
Ci sono ovviamente stati momenti di sconforto, legati all'incapacità o alla poca volontà di applicarmi a uno studio serio e, a volte, difficoltoso. Uno di questi momenti, in cui forse l'odio ha davvero prevalso, è stato il mio approccio con il teorema sulla copertura di un insieme di Heine-Pincherle-Borel-Lebesgue, che mi costò il primo tentativo di passare l'esame orale di Analisi I, con il mitico "Maestro" Giovanni Ricci (come si nota dall'immagine avevo evidenziato in rosso "no dimostrazione".....che invece ovviamente Ricci pretendeva!). 
Grande Matematico e grande Maestro, Giovanni Ricci ero noto a noi studenti anche per il suo modo di agire bizzarro. Concedeva magari un 18 ma pretendeva il lancio del libretto nella fontana del  Dipartimento di Matematica (quello di via Saldini a Milano) o fissava in aula timide matricole tuonando con la sua voce bassa, cavernosa e un po' impostata (vezzo di famiglia, essendo fratello dell'allora noto attore e regista teatrale Renzo Ricci):
"se non capite queste cose, che capirebbe anche il bigliettaio dell'autòbus (lo accentava sulla o), cambiate...... cambiate subito!"
A me disse "sa che lei è proprio carina? gradirei rivederla alla prossima sessione!", e si ricordò di richiedermi proprio il famigerato teorema che però sapevo alla perfezione perché, forse anche grazie a lui e al suo rigore, il mio odio si era ritrasformato in amore.

A questo mio amore per la matematica hanno certo contribuito tanti fattori, ma mi preme ricordare anche quello che mi diede un grande divulgatore matematico Martin Gardner con la rubrica di giochi matematici che tenne per più di un quarto di secolo in Scientific American, "Mathematical Games" (i Giochi matematici nella traduzione italiana di Le Scienze fino al 1981).
Attraverso i suoi "giochi matematici" mi incuriosì, mi stimolò e soprattutto mi convinse  a impegnarmi profondamente con l'insegnamento di questa disciplina.
Gardner, che ha deliziato e incuriosito sia matematici dilettanti che professionisti, non per niente è stato soprannominato "il miglior amico della matematica mai avuto"!


Martin Gardner sulla statua Alice in Wonderland al Central Park di New York


L’insegnante di matematica di scuola superiore che rimprovera due studenti sorpresi a giocare di nascosto una partita di filetto invece di stare attenti alla lezione, farebbe meglio a fermarsi e chiedersi: “Per questi studenti questo gioco è più interessante, dal punto di vista matematico, di ciò che sto loro dicendo?”. In effetti, una discussione in aula sul filetto non sarebbe una cattiva introduzione a diverse branche della matematica moderna.
Martin Gardner,
dall’Introduzione a Enigmi e giochi matematici, Vol. I