lunedì 14 luglio 2014

Carnevale della Matematica #75

Come ci scrive Dioniso, puntuale come un (neu)treno nella galleria Ginevra-L'Aquila, alle h 3,14 di oggi, 14/7/14, è stata pubblicata la 75-esima edizione del Carnevale della Matematica.
Ad ospitarla appunto Dioniso sul suo Blog "Pitagora e dintorni"



Carnevale Matematica #75: La matematica della musica o la musica della matematica?
- Illustre Pitagora! Che piacere rivedervi! Mi servirebbe il vostro aiuto per una ricorrenza.
- Non mi dica che si è impastoiato di nuovo con l'organizzazione del Carnevale della Matematica!
- Ehm… Sì. E per la precisione con l’edizione numero 75. Nome in codice: “il merlo, tra i cespugli, tra i cespugli”.
- Ho capito. E quindi viene da me per farsi scrivere l'introduzione sulle proprietà del numero 75.
- Beh…
- No, guardi, lasci perdere. Ormai lo so che mi viene a cercare solo quando le serve qualcosa.
- Ma non è vero...
- E siccome io so bene che la teoria dei numeri non è il suo forte...
- Beh, sì ma ci sto lavoran…
- ...l'aiuterò come ho sempre fatto. Allora, il numero 75. O πέντε καὶ ἑβδομήκοντα, come preferisco chiamarlo, ai miei tempi lo si scriveva così:|||||ooooooo ............................ecc ecc ecc


Il numero è denso di articoli interessanti ed originali via via presentati con la solita fine ironia che caratterizza Dioniso.
Buona lettura!!!!!

Ah si dimenticavo di ricordarvi che la prossima edizione, quella ferragostana del 14 agosto 2014, sarà ospitata da mau e, come tema facoltativo, avrà "Matematica estiva". 
Sarà l'edizione #76 e, come nome in codice, avrà "canta, canta nella luce".

Calendario di tutte le edizioni del "Carnevale della Matematica"

sabato 12 luglio 2014

La geometria sacra nella musica e nella danza

In occasione dell'uscita della 75-esima edizione del Carnevale della Matematica del 14 luglio, ospitata dal blog "Pitagora e dintorni" che ha come tema "La matematica della musica o la musica della matematica", ho pensato di inserire sul mio blog un interessante articolo, questa volta non mio ma pubblicato tempo fa da Claudio Lanzi sul sito Simmetria
Un tema affascinante che nell' articolo dimostra un forte legame della geometria, in questo caso intesa come sacra ed esoterica, anche con la musica e la danza rituali


La geometria sacra nella musica e nella danza rituali 
di Claudio Lanzi
(estratto della conferenza del 7 Ottobre 2007)

Nella prima conferenza di quest’anno accademico (vedi Riti arcaici e simbolismo religioso) abbiamo introdotto il concetto di “griglia” quale gnomone formatore di ogni sigillo archetipico. Le strutture elementari presentate durante l’incontro rappresentano dei sistemi universali, attraverso i quali è possibile operare la partizione del piano, impiegando delle regole geometriche precise (vedi Graziotti: Hermetica Geometria).
La regola geometrica, a sua volta definisce la forma del simbolo (visibile) e ne custodisce il messaggio arcano, sotteso dal “signum” omologico che collega la forma terrena a quella celeste[1].
Le partizioni, come abbiamo spiegato abbondantemente in altri testi[2], hanno contrassegnato uno dei maggiori impegni della geometria sacra, soprattutto d’ordine pitagorico.
Attraverso lo studio delle quattro principali proporzioni (geometrica, aritmetica, armonica e aurea), la scienza dei nostri Padri ha istituzionalizzato i codici di “misurazione” delle armonie della natura, del micro e macrocosmo, fino alle misure antropometriche  (cioè l’idealizzazione delle proporzioni fra le varie parti del corpo).



Dall’Egitto, alla Grecia, all’Asia, nel corso di millenni è stato redatto un “corpus” assai vasto di codici antropometrici, dove le differenze non sono imputabili a discrasie d’ordine estetico quanto a dei processi che sono al confine tra metafisica e matematica.
Quindi tutto ciò che definiamo “armonia”, nella “scienza sacra”, oltre a soddisfare un criterio estetico sottintende un messaggio subliminale[3]: un accordo, una “giusta postura” , un equilibrio magico e religioso, una corretta distribuzione del settenario delle virtù, delle Muse, delle Parche.
Ma le griglie, che rappresentano dei “percorsi obbligati” e che trovano la loro componente metafisica più interessante nei labirinti nelle scacchiere e nei “quadrati magici” (tavola pitagorica inclusa)[4], individuano anche i “percorsi delle danze “rituali”, quelli che devono soddisfare delle rigide movenze tramandate dalla tradizione d’appartenenza.
Percorsi che non possono essere disattesi, pena la distruzione o vanificazione del rito, il turbamento dell’omologia cosmica[5] e, come spesso accadeva nel passato (soprattutto in situazioni tribali dove le danze d’ordine sciamanico erano eventi cultuali intorno ai quali si imperniava la sopravvivenza della tribù) la “disattenzione” poteva condurre anche alla morte del trasgressore.
In tal senso, la trasmissione del culto e delle liturgie sacre che, nel corso dei secoli, possono essere modificate infinite volte, è sempre fortemente collegata alla “prisca disciplina”, al simbolo archetipico di partenza e non ammette “adattamenti” in funzione di un maggiore o minore coinvolgimento sociale (vedi quanto accaduto alla liturgia cattolica dal 1960 al 2000 e i vari articoli di Epimeteo sulla rivista Simmetria).
Lo stesso dicasi delle Vie d’ordine ermetico, spesso trasversali o parallele rispetto ai grandi filoni religiosi: è pressoché impossibile che culti, suoni, forme possano transitare da una generazione all’altra senza turbamenti o adattamenti ma, ripetendo in parte quanto affermato dallo stesso Guénon, non bisogna confondere cerimonialità con rito.[6]
altNe deriva che la partizione sapiente di un pavimento di una cattedrale romanica come quella di un tempio greco soggiacciono a dei principi geometrici che introducono il ritmo iniziatico nel rito.  
Confinare tali schemi in un puro vezzo decorativo è una riduzione assurda così come è assurdo ridurre il rito alla sua forma cerimoniale.



Ecco perché la danza sacra che rappresenta la forma geometrica più pura e più antica del rito (indipendentemente dalla tradizione d’appartenenza) è qualcosa che supera la cerimonialità.
Riportiamo parzialmente un brano di Luciano di Samosata[8] che chiarisce efficacemente quanto intendiamo per danza rituale:
“…ma coloro che ricercano le origini più veritiere della danza, ti direbbero che essa nacque contemporaneamente alla prima origine dell’universo e che apparve insieme all’antico Eros; per esempio il movimento circolare degli astri, l’intreccio dei pianeti con le stelle fisse, euritmico rapporto e la regolata armonia che li governa, sono la prova dell’esistenza primigenia della danza” e più oltre prosegue: “Innanzi tutto dicono che Rea, appassionatasi a quest’arte, incitò alla danza i Coribanti in Frigia e i Cureti a Creta ed ebbe una non modesta ricompensa poiché essi salvarono Zeus danzandogli intorno….si trattava di una danza armata, durante la quale essi percuotevano gli scudi con le spade e saltavano, come invasati, o come veri e propri guerrieri”.
E poco più oltre, riconoscendo la “potenza” della danza rituale in ogni sua forma, ricorda che i Troiani attribuivano a Merione, danzatore greco, una grande agilità ed eleganza nel combattere, e che Pirro Neottolemo, figlio di Achille, fu colui che introdusse nel mondo greco la danza “pirrica” che prese appunto il suo nome. Ed è sempre Luciano a ricordare che gli Spartani, avendo appreso dai Dioscuri a ballare la Cariatide, ne fecere un terribile strumento di guerra.
La stessa fondazione delle città, o dei templi avveniva attraverso una liturgia danzata e ritmata, sorvegliata da collegi sacerdotali rigidissimi (come, ad esempio, i septemviri romani).
La separazione della danza da altre manifestazioni rituali, è perciò un fatto totalmente moderno e specificamente occidentale.
Teatro, canto e danza erano un tempo, anche in occidente, rigidamente uniti e la liturgia che animava la rappresentazione teatrale, non era molto distinguibile da quella celebrata durante le manifestazioni religiose distribuite durante l’anno (con una soluzione di continuità sia di movimento che musicale, fra paganesimo e cristianesimo per lo meno fino ai tempi di Carlo Magno).



La funzione sacra, terapeutica e didattica del teatro era, a questo proposito, completamente diversa da quella che abbiamo oggi, dove contano le “performances” del singolo individuo e la rappresentazione di sentimenti, in maniera del tutto slegata dal mondo celeste.
Tali posture e ritmi sono spesso codificati in rigidi schemi gestuali che accompagnano la liturgia di qualsiasi rito tradizionalmente inteso. Liturgia che con il tempo può variare, anche drasticamente, ma il principio fondante (il contenuto spirituale del rito) resta immutato.
In ogni tradizione esistono perciò dei “mandala” (usiamo un termine abusato ma ormai comune anche in occidente), disegnati sulla terra, che oltre a stabilire il sigillo e il particolare codice d’accesso al sacro, guidano i passi e ogni altro movimento gestuale singolo o collettivo, nel numero e nella ampiezza.
Possiamo andare dai complicatissimi disegni indotibetani, a quelli aztechi, a quelli cretesi e romani.
Pensare che lo scopo di tali schemi pavimentali sia solo decorativo è quanto meno incongruente. In tale disegni, oltre a trovar posto le divinità con le loro gerarchie (cosa frequentissima sia nella tradizione indiana come in quella cristiana), trovano assetto soprattutto delle precise partizioni geometriche che, oltre ad individuare le “regioni” celesti e le loro omologie con quelle terrestri,  indicano a colui che le guarda o le percorre, il cammino da “danzare” per entrare o uscire da questa rete magica, o, in altri casi, per “attivarla”.
E tali ingresso e uscita (che nella liturgia cattolica sono stati perfezionati nel corso dei secoli) sono, normalmente, suggeriti da una danza processionaria e da un canto.
I labirinti, presenti in molte cattedrali, erano una volta percorsi dai fedeli secondo delle metodologie di passo (ormai conosciute a pochissimi) e si collegavano simbolicamente al senso del “pellegrinaggio”, di cui rappresentavano le tappe e le difficoltà.
L’esecuzione di un percorso “serpentino”, o se vogliamo labirintico, è cosa comune a quasi tutti i popoli.
Alcuni movimenti, alcune coreografie, sono elementari, soprattutto quelli delegati al “coro” che costituisce, sotto un certo aspetto, il riferimento sovracoscenziale della rappresentazione. Nelle varie forme di teatro antico come in quelle templari,  tale “coro” è la voce fuori campo, il commento incontestabile, a volte l’eco del Fato.
Non per niente il gruppo che siede nei pressi dell’abside della chiesa cristiana chiamasi ancora “coro” e ne assolve in parte le funzioni.
Spesso il coro avanza e torna indietro come una sola entità; funzione che nel cristianesimo posteriore al Mille è stata quasi sempre ridotta alle tre posture fondamentali (in piedi, seduti o in ginocchio).
Se riferiamo i movimenti rituali alla loro proiezione sul piano terrestre possiamo parlare di “poligoni” con le loro diagonali, bisettrici e mediane mentre, se riferiamo il movimento anche alla terza dimensione, possiamo parlare di poliedri.
E poiché, secondo la tradizione pitagorica, ad ogni poliedro corrisponde un elemento (fuoco, acqua, aria, terra, etere) ecco che la rotazione dei poliedri all’interno della sfera, come suggerito e rappresentato da Graziotti seguendo il Timeo platonico, realizza la creazione e la dissoluzione degli universi.
Abbiamo volutamente conservato il nome di “liturgia sacra” anche per quanto concerne le arti marziali poiché la codificazione degli schemi di combattimento, non è diversa da quella di contatto con il divino. Si è sempre di fronte ad uno schema sacro, proveniente da tradizioni primordiali, e lo scrupolo assoluto nella esecuzione del rito è connessa a quanto efficacemente espresso nell’articolo di Riccardo Garbini presente nel sito.
In questa sede  abbiamo riportato alcuni schemi di danza eterogenei ma tutti connessi alla sacralità della rappresentazione e siamo passati, con una certa leggerezza, dalla danza del serpente africana a quella estatica sufi, a quella in “maschera” (concetto importantissimo su cui torneremo in futuro) della tradizione tibetana.



Teniamo anche presente che la liturgia (intesa come insieme di regole per rispettare il Rito) può diventare talmente importante da sovrastare il senso del rito stesso. Può diventare una successione di gesti, parole, suoni di cui, a volte, si rischia di perdere il significato e soprattutto l’osmosi con il Noumen. Può diventare soltanto “cerimonia”.
Questo è abbastanza normale che accada: e allora ci si può domandare che cosa resti di ugualmente vivente, pur nella forma gelida di una liturgia considerata, dalle varie chiese, comunque valida in quanto il contatto con il “divino” viene “ex opere operato”.
Sotto questo profilo possiamo aderire a due ipotesi.
La prima esclude categoricamente che, in assenza di osmosi “cardiaca” fra ufficio e officiante possa mai accadere qualcosa di serio e ciò comporta che il “sacrum-facere” venga insterilito dalla assenza di comprensione della sostanza.
La seconda ipotesi (assai evidente, ad esempio, in cerimoniali rigidissimi come quelli dello Shinto giapponesi), assicura invece una cieca fiducia alla perfezione liturgica e sostiene la completa trasmissibilità della “sostanza”, attraverso la purezza della “forma iniziatica”, l’assoluto rispetto della tradizione e il suo collegamento con il mondo celeste (la perfetta forma può, per così dire, “trans-formare”anche un’assoluta “sordità” spirituale del praticante o indegnità del sacerdote).
Questa seconda impostazione, sotto un certo aspetto, attribuisce alla trasmissione “per riti” una “esotericità” assoluta.
Anzi se c’è qualcosa di realmente… esoterico è proprio questa fiducia nella perfezione del rito. In quanto, in tal modo, la “selezione” sulla dignità dell’Opus viene operata proprio nel gradino formale. La forma iniziatica perfetta nasconde e consente la sostanza perfetta, e assicura la trasmissione del seme spirituale.
Si parte dal presupposto che l’autenticità del “rito”, del sigillo-simbolo”, una volta accolto, ha comunque la possibilità di svilupparsi (in questa o in altre esistenze).
Ora in occidente noi abbiamo studiato, anzi direi aggredito, tutte le ritualità esotiche (e non esoteriche) di tutta la terra, tentando di capirle, anzi… di scardinarle col grimaldello del pensiero e della logica (gli antropologi, in genere, servono soprattutto a questo).



Ogni tanto qualcuno, grazie a Dio, prova anche a praticare la ritualità che sta studiando. Ma per far questo deve aderire alla forma (e non con semplice curiosità ma con “amore”) e non solo alla sostanza (che nella maggior parte dei casi è protetta dalla forma, e perciò inconoscibile).
Quindi, a nostro avviso, la forma non può essere semplicemente indagata ma soprattutto amata, anzi contemplata, lasciando che la stessa, operi il suo piccolo miracolo trasmutativo (purché l’empatia spirituale abbia modo di attivarsi nell’anima del praticante).[9]
Così come l’alchimia non si studia sui testi ma si pratica in “laboratorio”, così l’esoterismo cristiano, o islamico o buddista, non si praticano in biblioteca ma all’interno delle regole “exoteriche” proprie della tradizione d’appartenenza.
Ma oggi, nella cultura del “fai da te”, del “io mi inizio da solo”, una disciplina che non susciti emozione, partecipazione , brividi cosmici singoli o collettivi a non finire, viene considerata (soprattutto in occidente) paccottiglia da beghine, superstizione e modo per dar potere…ai preti d’ogni razza.
Spesso si crede che la “forma” sia una sovrastruttura inventata dalle paure degli uomini e si perde il senso dell’”omologia” cielo-terra, quindi il senso stesso di religiosità e di rito.
C’è anche da dire che le istituzioni religiose si sono spesso alacremente “impegnate” a demotivare, con il loro comportamento temporale, o oltranzista, o fanatico, gli autentici ricercatori, confinandoli spesso tra gli eretici e riscattandoli poi… una volta morti. Per questo, forse, è assai vero quel detto che è molto più importante incontrare il Maestro di quanto sia importante incontrare la Via e che, senza questo, è assai difficile riconoscere quella.
E’ evidente che la forma può modificarsi infinite volte, ma se il ri-spetto (da speculum) è mantenuto integro dalla sapienza iniziatica che da vita ad una particolare “forma”, qualsiasi modifica non altera la sostanza sapienziale, il seme spirituale resta comunque integro, luminoso e attivo.
Sapienza iniziatica, dunque: conditio-sine-qua-non perché la forma non ceda a ricatti prometeici, cosa che accade regolarmente ogni volta che si confonde il mondo emotivo, o il successo sociale per conseguimento spirituale.
Il rifiuto o il timore della liturgia e della regola (se correttamente trasmesse) è dunque presunzione e sopravvalutazione di quella percezione di cui abbiamo parlato nella introduzione al corso di quest’anno; è fiducia nel proprio permeabile e “sentire” (anche se parliamo di sensibilità raffinata) volendo soggiogare il soprasensibile alla nostra… sensibilità intellettuale.
E ciò è incongruo.
Attribuire all’"Orma della Disciplina”[10] un carattere limitativo e alla percezione “spontanea” un carattere predominante è una prerogativa dell’uomo post rinascimentale, hegeliano, illuminista; ma anche pensare che il romanticismo di tipo un po’ “wagneriano” rappresenti un superamento di tale illuminismo è un ulteriore inganno. 
Rinnegare le qualità delle “regulae” delle comunità monastiche medioevali (che poi, chissà perché, sono quelle che creano maggiori appetiti… indagatorii proprio da parte di coloro che non si sottometterebbero mai ad una qualsiasi di quelle “regulae”) è una caratteristica di un uomo che mal sopporta limitazioni alla sua libertà (presunta), che teme di “chinare la testa” alla regola spietata delle “griglie” di cui sopra, che non accetta il senso sacro dell’”humus” e non si accorge come questa sia la grande porta… per entrare nella prigione della vanità.
C’è un film divertente, che hanno dato pochi giorni fa in televisione e che si chiama “L’avvocato del diavolo”. Chi non lo ha visto cerchi di procurarselo. Vale la pena di vederlo per le ultime tre battute, che ovviamente non vi dico.

 [1] Il concetto di “omologia” è spiegato assai efficacemente in un vecchio testo di F. Lefebure dal titolo “les Homologies” ma lo ritroviamo anche in Guénon su “Iniziazione e realizzazione spirituale nonché in Virio su “Orientamenti iniziatici”
 [2] Ritmi della scienza sacra
 [3] Armonia, figlia di Ars e Afrodite secondo la tradizione Tebana rappresenta propriamente l’equilibrio fra il principio attivo e passivo. Contraddistigue il “bello” e buono come equilibrio e temperanza nello svolgimento dell’Opus. Ad Armonia appartiene la veste preparata dalle stesse Cariti, che ottiene in occasione delle sue nozze con l’eroe Cadmo.
 [4] Misteri e simboli della Croce.
 [5] Quando Platone e tanti altri, fino a Keplero parlano dell’”armonia delle sfere celesti” e relazionano tale armonia a dei percorsi obbligati, rigidamente connessi alla musica, intesa quale armonico rapporto fra frequenze, non fanno altro che riflettere una omologia che è da sempre presente nel “codice genetico rituale dell’uomo”.
 [6] “Mentre i “riti” comportano necessariamente un elemento “non umano” le cerimonie sono invece qualcosa di puramente umano…” (R. Guénon: Cerimonialismo ed estetismo -  su Iniziazione e realizzazione spirituale)
 [7] “Mousiché” è un termine greco con cui, soprattutto nell’orfismo e nel pitagorismo, la matematica e la geometria si uniscono al suono e all’euritmia.
 [8] Luciano, nato a Samosata sull’Eufrate, agli inizi del secondo secolo d. C. fu, come noto, un retore famoso che si dedicò alla ricerca filosofica soltanto nella seconda parte della sua vita. Il suo repertorio letterario è vastissimo anche se meno conosciuto di quel che merita.
 [9] Non è possibile, a titolo d’esempio, comprendere realmente la “portata spirituale” di uno “stupa” buddista, se non vivo le ritualità per cui è nato. Lo stesso dicasi di una moschea o di una chiesa cristiana. Una vetrata gotica non è “bella” sono per la sua indubbia qualità estetica o per l’”emozione” che arreca, ma per ciò che rappresenta in ambito religioso e liturgico. Chi l’ha fatta non voleva stupire ma “pregare”.
[10] Si riferisce ad un modo di dire molto frequente nei testi buddisti in cui si esplicita che seguire esattamente le "impronte"del maestro (sia nella pratica quotidiana che nel proprio cuore) vuol dire applicare la disciplina. La disciplina, a sua volta è la scienza di colui che apprende (il discepolo).

Fonte: 
www.simmetria.org